Distopia giudiziaria
Pubblicato in: Doppiozero.
Data: 9 ottobre 2019
Ripescare testi che non meritano l’oblio, dimenticati ma degni di una nuova vita, è una iniziativa meritevole che può estendersi ai generi più diversi. Anche a quelli cosiddetti minori e troppo spesso confinati nella rassicurante categoria di evasione, come la fantascienza. Molto si è detto, molto si dice su questo spazio letterario multiforme (in questa rivista, Federica Arnoldi su Bolaño. Lo spirito della fantascienza) che ha come asse portante il racconto di futuri possibili, l’immagine dell’alterità attraverso mondi alieni. Nella provincia della ‘science fiction’ esiste poi la versione, fascinosa ed avvolgente, del binomio “utopia-distopia”, la narrazione da un lato di mondi e luoghi gioiosi, e dall’altro il racconto dei peggiori incubi e di scene infernali. Su questo versante, e in particolare sulla sua rara declinazione giudiziaria attraverso romanzi dimenticati di autori peraltro insospettabili, ci si intende ora soffermare.
L'utopia è il “luogo buono”, il progetto di una società giusta, il viaggio verso mondi alternativi che dovrebbero assicurare ordine e serenità. La distopia ne è invece il totale contrario, è il “luogo cattivo”, il modello di una società distorta, malvagia, indesiderabile per un malessere e un bisogno di ribellione in una visione del futuro cupa, angosciante, disincantata.
Sotto il profilo narrativo, come osservato di recente (Di Minico, Il futuro in bilico, Il mondo contemporaneo tra controllo, utopia e distopia, Meltemi, 2018), il distopista opera da fotografo in una camera oscura. Aumentando i contrasti emerge qualcosa che l’utopia celava, una fotografia terrificante, disumana e il migliore dei mondi possibili diventa il suo peggiore. Sostanzialmente il procedimento permette di vedere qualcosa che prima non appariva. E quindi si può affermare che la distopia è un'utopia sottoposta ad analisi critica.
Emergono poi alcune sfumature. L’utopia, descrivendo una città ideale da raggiungere, si struttura con il racconto di un viaggio. È il viaggio che conduce ad una metà sconosciuta oltrepassando la situazione esistente, e il percorso consente al personaggio di lasciare l’esperienza precedente e giungere, quasi spaesato e stordito, in un luogo nuovo. La narrazione utopica generalmente è scandita su uno schema basata su quattro momenti. Un viaggiatore vive nelle stesse coordinate spazio-tempo del lettore, poi si trasferisce quasi sempre involontariamente in una società nuova, quindi gli abitanti di questa nuova società gli spiegano i loro costumi, infine avviene il rientro nel tempo e nel luogo di partenza.
Nella distopia invece il viaggio è assente, mentre è presente un personaggio che si fa portatore dello scontro con la realtà. Questi non soffre dello stordimento da trasferta, ma agisce e non si fa trasportare. Cosi avviene, ad esempio, per D-503 in Noi di Zamjatin, per Smith in 1984 di Orwell, per Montang in Fahrenheit 451 di Bradbury, per Anderton in Minority Report di Dick. Anche per questo elemento, la distopia, concentrandosi sui personaggi come motore dell’azione, meglio si adatta alla comunicazione cinematografica che, come ricorda Barthes, predilige una significazione attraverso personaggi e le loro relazioni.
L'utopia e la distopia, però e nonostante, hanno svariati punti di convergenza. Innanzitutto sono contrassegnate dalla astoricità, nel senso che non hanno una loro storia, non ne hanno bisogno essendo cristallizzate nella loro perfezione, non hanno linee di sviluppo rilevabili con criteri scientifici, bensì descrivono modelli esemplari, società ideali, positive o negative, pur con i distinguo di cui si dirà.
Una seconda convergenza riguarda un profilo che pare opposto al precedente, ma non lo è. Si tratta della sensibilità alla storia, l’essere cioè “storicizzati” subendo da essa interferenze e condizionamenti.
Innanzitutto la cornice storica influisce sul propellente tipico del binomio: l’utopia e la distopia sono il prodotto di desideri, pulsioni, emozioni e soddisfano bisogni “radicali’. In gioco sono le intenzioni, i desideri e quindi l’immaginazione dei futuri possibili, un terreno instabile, fluido, ingannevole. Tra queste ultime si inserisce Riccardo Mazzeo, nel volume scritto con la Heller (Il vento e il vortice, Erickson 2016), discutendole attraverso alcuni romanzi in cui si assiste alla scomparsa dell’umano, quello responsabile, riflessivo, motore del mutamento nato con l’umanesimo. Capitolo a parte merita la paura, di cui la distopia in particolare rappresenta le dinamiche. I suoi paesaggi non sono rigidi e invarianti perché la paura è calata all’interno di un determinato quadro culturale e storico. La necessità di contestualizzare scaturisce dal fatto che, con il mutare del sistema sociale, delle competenze tecnologiche e delle modalità di relazione con l’ambiente cambiano i rischi cui si è sottoposti. In alcuni casi, poi, i pericoli non cambiano ma cambia la loro percezione, legata in duplice senso alla rappresentazione di ciò che costituisce un pericolo. Da un lato si impara ad avere paura di una certa cosa perché se ne sente parlare, dall’altro si proiettano nel futuro le paure e le si rappresenta.
Un elemento comune è la frattura spazio-temporale, cioè la distanza tra realtà e nuovo mondo. Questo aspetto, cioè la distanza spazio-temporale, è decisivo perché elastico, per dirla banalmente ‘a fisarmonica’. Non esiste cioè un dato fisso che computa lo spazio, che divide realtà e immaginazione, il mondo esistente dal mondo nuovo. La rappresentazione di quanto potrebbe-dovrebbe accadere è in relazione con quanto avviene nel concreto momento reale. In una fase dell’evoluzione storico-politico le distanze si possono accorciare e il lettore di alcuni decenni passati può aver trovato avveniristico quanto il lettore di oggi scorge più prossimo alla realtà. La statura letteraria e visionaria di un autore come Philip Dick sta anche in questo (vedi il mio articolo Philip Dick e il controllo del crimine).
Esiste poi un ulteriore profilo di raffronto, la connessione tra realtà e mondo nuovo. Entrambe intendono spronare a mutare le condizioni storiche esistenti, l'utopia con l'immagine della città ideale cui tendere e la distopia con il modello della società deviata da cui fuggire. Hanno ben presente la realtà in cui si vive, lanciano un grido di allarme, mettono in guardia dalle criticità, dagli incubi del presente. Il proposito è quello di spingere verso mete più luminose, cercando di fecondare l’azione che si opponga a una situazione storica avvertita come dolorosa. “Un qualsiasi cambiamento fondamentale della società non può che essere annunciato liberando visioni utopiche, come tante scintille dalla coda di una cometa” (Jameson, Il desiderio chiamato utopia, Feltrinelli, 2007).
La distopia amplifica e rende tangibili quelle tendenze negative che si radicano nella realtà, intravede i conflitti attuali che fanno sorgere il male. Essa si presenta come il risultato, più o meno vicino nel tempo, di germi già insidiatesi nella società. Di conseguenza la descrizione puntuale del «luogo cattivo» vuol indurre il lettore a stabilire un rapporto di causalità tra il mondo reale e quello rappresentato. E questo affinché si avverta l'urgenza di mutare quelle strutture e quegli atteggiamenti che, lasciati liberi, porterebbero a uno scenario infernale.
Come noto non tutti la pensano in questi termini. Adorno ad esempio è in disaccordo in quanto, a suo avviso, la società attuale congela i propositi di sviluppo, è imprigionata e quindi incapace di immaginare utopie. Del resto le utopie spesso bloccano, cristallizzano in quanto rappresentano la fine della storia, il termine della spinta. Con loro il processo si ferma, è la stasi in quanto hanno costruito il sistema perfetto (Prismi, Einaudi, 2018).
La storia influenza il binomio utopia-distopia anche sotto ulteriore versante, quello politico-sociale. Tra il finire dell'Ottocento e l'inizio del Novecento si sono moltiplicate le narrazioni a carattere scientifico, meccanico e industriale che hanno descritto il progresso come un rullo compressore. L'uomo ha asservito il pianeta divenendo una divinità per dirla con Harari (Da animali a dei, Bompiani, 2015). Ha perciò buone ragioni chi osserva che le distopie contemporanee sono la conseguenza del disastro dei totalitarismi, della violenza e dell’autoritarismo che creano sfiducia nei modelli politici vigenti, nel futuro, portano al crollo della fiducia nella scienza. Il loro pessimismo è connesso alle circostanze storiche, specie del primo e del secondo dopoguerra, periodo identificato con l’età della distopia (Bongiovanni, Dall’utopia alla diacronia, Olschy, 2001). La distopia non ha comunque subito rallentamenti in quanto ha avuto costanti esempi di ‘luogo cattivo’ cui ispirarsi, dallo sfruttamento di classe agli incubi atomici, dalla realtà virtuale alla ricerca di piaceri artificiali, da ultimo alla sottomissione. «La nascita delle grandi dittature moderne, l’opposizione dei blocchi politici, l’esperienza dei campi di concentramento, la “guerra fredda”, una sovrapproduzione anarchica, l’influenza sempre crescente di una tecnica disumanizzata, “l’arte” di abbrutire le masse, tutto questo, in modo disordinato, nutre l’antiutopia, la cui essenza sono timore e disincantato scetticismo. […] Invece della felicità troviamo la disperazione e la descrizione della miseria della vita umana; la fine dell’uomo e non già il suo sviluppo; non più una proposta ottimista, ma un avvertimento dinanzi alla sorte di coloro che si lasciano conquistare dalle fallaci seduzioni delle utopie» (Trousson, “La distopia e la sua storia”, in Utopia e distopia a cura di Colombo, Dedalo, 1983)
La distopia giudiziaria
La letteratura sul binomio utopia-distopia ha, e ha avuto, infinite ramificazioni nel tempo. Molta attenzione è stata dedicata alla distopia totalitaria, da Orwell di 1984 edito nel 1948, a Huxley di Il mondo nuovo edito nel 1932 per citare i massimi, per transitare da P. Dick, secondo cui “Questo sistema è come un immane camera di tortura dove le persone si scrutano a vicenda cercando di cogliersi in fallo, cercando di eliminarsi l'un l'altro. Caccia alle streghe e camere stellate. Paura e censura, i libri messi all'indice. I bambini che non devono sentire parlare del male. Il Rimor (risanamento morale) è stato inventato da menti malate e genera altre menti malate" (Redenzione immorale, Fanucci, 2011).
Minor attenzione è stata dedicata invece, salvo il gigantismo inarrivabile di Kafka, al dispotismo giudiziario, cioè alla potenza dei giudici che amministrano le regole che vengono applicate, e all’incidenza della tecnologia a sostegno.
L’osservazione è tanto più significativa in quanto i pochi che si sono calati in quella dinamica sono per lo più stati degli ‘incursori’, cioè autori noti in altri settori senza essere però ricordati per l’impegno in questo. Sono stati anomali “amateur”, forse per un capriccio, forse per il cedimento a un desiderio, forse per una pausa oppure un divertimento. Sono entrati nella schiera degli ‘insospettabili’, affascinati perché sfiorati o travolti da alcuni temi ineludibili e generali, il male e il negativo che opprime la società, la necessità di reagire ed il come farlo, il dominio del principio di illusione per il quale niente è come sembra, l’obiettivo finale di un percorso che smonta ingranaggi in apparenza vincenti e che sostiene che l’evidenza è il risultato di una ricerca che deve sconfiggere facili traguardi.
Uno di questi personaggi è Walter Jens. In Germania, poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, aveva iniziato ad affermarsi come raffinato studioso del mondo antico, come filologo classico, autore di lavori ermeneutici su Ulisse, Euripide, Eschilo, Virgilio, Tacito, dal 1983 al 1997 presidente dell'Accademia delle Arti di Berlino, autore anche di saggi letterari come le Quattro tesi sulla letteratura tedesca oggi (Bompiani 1996). Jens non esauriva però le energie negli studi del passato, ma frequentava autori suoi coetanei, reduci come lui dagli strazi della guerra attraverso soprattutto la rivista “Der Ruf” portavoce del Gruppo 47, con a fianco di personaggi del livello di Martin Walser, Böll, Bachmann tra gli altri. Quegli anni influenzarono una direttrice intellettuale successiva di Jens, grazie alla quale avvierà una fertile consonanza spirituale con il teologo Kung, con cui dialogherà su temi assai poco convenzionali (La dignità di morire, BUR, 2000, Dialogo con Küng, Queriniana, 1997). Dal chiuso degli studi, Jens emerse anche scrivendo romanzi che, suo malgrado, non uscirono da un ristretto circuito e che peraltro non furono tradotti in Italia. Uno di questi però superò i confini tedeschi, fu il suo primo lavoro edito nel 1950 e tradotto in Italia nel 1954, per la prima ed unica volta, oggi dimenticato, ingiallito, dal dorso logoro, apparentemente invecchiato ma rispettabile in quanto rappresenta una vicenda di distopia giudiziaria. Si tratta di No: Il mondo degli accusati (APE, Milano, 1954). Come osservato (Fambrini, Sogni di acciaio e di cristallo, Anarres, Rivista di studi sulla science fiction, 2012-1) erano gli anni dell’immediato dopoguerra e la ricerca si dirigeva verso un’armonia perduta. Molta attenzione si poneva ai contenuti, ma anche alla distanza. Poteva essere spaziale, come In Il gioco delle perle di vetro del 1943, dove Hermann Hesse proietta in un immaginario stato la sintesi tra le forme spirituali e artistiche prodotte dall’umanità. Oppure la distanza poteva essere temporale, come in Il pianeta dei nascituri del 1946, dove Franz Werfel nell’anno 100.000 d.C. tratteggia un mondo in cui non è cancellata la tensione spirituale, incarnata nei segni della chiesa cattolica e della religione ebraica. O come ancora in Heliopolis del 1949, dove Ernst Jünger proietta nel futuro la contrapposizione di blocchi, tra una città – stato che incarna i valori dell’Occidente, uno stato barbaro e totalitario con analogie con l’Unione Sovietica, un popolo indiano di paria che corrisponde agli ebrei.
Nel romanzo di Jens la distanza instaura un legame indesiderabile, raffigurando una vera e propria repubblica giudiziaria, un mondo retto dal totalitarismo assoluto esercitato da un Giudice Supremo che decide secondo il suo imperscrutabile arbitrio, con poteri oscuri, diviso tra giudici, accusatori e accusati, tra spie e spiati. Si tratta di classi tra loro interdipendenti in un mondo in cui tutto si muove governato dal Giudice Supremo che architetta interrogatori crudeli, installa celle dotate di temperature estreme che riducono a larve i disgraziati reclusi, è circondato da magistrati piegati a una spietata gerarchia da cui dipende la sorte di tutti. Esiste poi una seconda classe, quella dei testimoni, che in realtà sono gli accusatori in quanto l’unica alternativa in quella società è accusare o essere accusati. ‘Bastava dicesse qualcosa su qualcuno che il funzionario registrava tutto” (p.187). Costoro hanno modo di dimostrare la lealtà a questo stato poliziesco vigilando i concittadini, denunciandone gli atti, le parole e persino i pensieri non ortodossi. “’Far apparire tutti come spie” (p.111). E tale coercizione globale conduce paradossalmente all’unica felicità possibile per l’individuo: il non-pensiero, la sollevazione dalla responsabilità. Esiste poi una terza classe residuale, quella degli accusati, cioè di coloro che sono raggiunti dalle accuse o che rifiutano il ruolo di accusatori. Divengono sospetti quando rifiutano di esercitare quel dovere poliziesco perché aspirano a una libertà di coscienza incompatibile con l’inesorabile legge di uno stato in cui coercizione e terrore annientano il ruolo dei cittadini. Questa struttura gerarchica sviluppa poi un ingranaggio sociale costituito da una macchina con due nastri di acciaio uno di fronte all’altro. Nel primo esistono miliardi di incavi, nel secondo piccoli martelli che battono su quegli incavi. “Fai conto che questi incavi siano gli uomini. Accusare non sarà che stabilire un contatto e far cadere un martello”, “questa è la vita… la cadenza di martelli che battono e incavi aperti a riceverli. La storia non è che questa cadenza di martelli”.
Il protagonista, Walter Sturm, è un intellettuale che si sente libero ma è costretto, quasi senza accorgersi, a passare nelle fila dei testimoni accusando altri. Non solo: il Giudice Supremo lo indica quale suo successore perché ha capito che questo intellettuale ha una forza interna che gli consente di percepire ancora il bene e di distinguerlo dal male. “Tu sei l’ultimo e devi prendere il mio posto’… Sturm rispose:’ impossibile’ ‘Tu sai che un giudice viene freddato con un colpo nello stesso istante in cui viene ritenuto colpevole di un reato e nessun reato è più grave del tuo rifiuto. Domani a questa ora mi darai la risposta’”. Sturm non accetta la proposta, sa di morire, è consapevole di essere l’ultimo a difendere la personalità umana, ma così rivendica un diritto-potere inalienabile: decidere per sé. Dopo la sua morte la struttura continua a girare implacabile, inarrestabile, perpetuando la vita coatta.
In questo romanzo i temi della distopia classica entrano di autorità: domina la paura del sospetto, il timore della punizione, il rifiuto di giudizi sommari. La divisione in classi non è una novità (tra tutti Huxley è un padrino autorevole), ma nuovo è il plot. Non si tratta soltanto di descrivere anche nel dettaglio una macchina infernale che genera incubi quotidiani come in una tragedia, di una struttura lugubre che stritola di cui i giudici sono strumenti. Questo è il punto: in Jens i giudici, nella persona di quello Supremo, non sono solo esecutori, ma divengono governanti assoluti di una struttura da loro creata e declinata, tanto che a capo vi è il Giudice Supremo. Nel romanzo non vi è oscurità, né si dilatano allegorie: la realtà, seppur fantastica, è crudelmente lineare e nitida, ambientata in anonimi anni ‘50 ma meritevole di essere letta nei nostri anni.
Tra gli insospettabili dimenticati alcuni sono di forte peso letterario, da Corrado Alvaro di Uomo forte (1938) a Guido Morselli di Dissipatio H. G. (1977). Costoro però non hanno sfiorato il mondo della giustizia e il suo l’apparato, a differenza di un altro autore irrequieto, sprofondato nell’ombra quasi nella sua integralità, fluviale nella produzione letteraria, saggistica, filosofica, punito per una poetica oggi datata e superata.
Si tratta di Giovanni Papini e del suo Libro Nero uscito nel 1951 (Vallecchi, Firenze), quindi un anno successivo a quello di Jens. Lo scritto, trascurato anche perché assente in Tutte le opere di Giovanni Papini (Mondadori 1958-1966) e anche nei Meridiani, si pone come continuazione di Gog, pubblicato nel 1931 (ora Giunti, 1995). Esso è basato su pagine del diario di un personaggio immaginario che vuole offrire “un documento singolare” sulle tendenze più sconcertanti per il futuro. Gog è un viaggio immaginario nella storia della civiltà contemporanea e con chiaroveggenza, siamo nel 1931, vengono anticipati gli eventi più catastrofici del Novecento. In Il libro nero vengono riprese le predizioni inquietanti ripresentando la stessa reazione all’inarrestabile “progresso che si compie”. Esso sarà pervaso dalle stesse illusioni nell’alienazione di una società globale in decadenza che si basa sul dominio della tecnica divenuta “religione del movimento senza riposo, della produzione senza limiti, della macchina dominatrice e liberatrice”. La persona perde alcune sue peculiarità appiattendosi nella nuova società di massa, omologandosi e imitando la macchina, non accrescendosi anzi impoverendosi perché quella società, ammaestrata dal progresso della macchina, crea finti miraggi. “Ma voi capite che fissare i suoni in un disco, ingigantire le voci, perfezionare le lampade elettriche o la radio, non significa né accrescere la felicità, né avvicinarsi ai segreti dell’universo. […]. La critica alla società che cerca di competere con la natura imitandola si riassume nelle parole dell’inventore Edison, che si pente della sua superbia giovanile: “Quand’ero giovane immaginavo scioccamente che tutta la civiltà consistesse nelle macchine. Ho costruito qualche macchina fortunata e siamo al punto di prima”.”
Papini si inserisce d’autorità nella distopia classica quando mantiene una visione della scienza come una forza malevola, o come produttore di tecnologie potenzialmente distruttive. Nel romanzo si sostiene che, dall'età dei metalli alla balistica intercontinentale, dalla polis greca all'invenzione dello Stato moderno, dal mito di Prometeo alla tecnologia del vapore, dalla rivoluzione info-telematica all'ingegneria genetica, ogni conoscenza e ogni applicazione tecnologica deve essere calata nelle categorie umane, determinando inevitabili conseguenze culturali, sociali, economiche, demografiche, pedagogiche. Occorre confrontarsi e superare l’“insidia macchinale”, criticare la “religione della macchina dominatrice”.
Esiste un filo conduttore. La volontà dell’autore è di creare una forma di coscienza della condizione umana fra diritti e doveri, gioie e dolori dell’esistenza. Non a caso indica tale teoria come “pragmatista”, in quanto solamente liberandosi dalle questioni pratiche e superflue si può formulare una teoria generale, universalmente accettabile. Papini prospetta una nuova forma di sapere attivo che innalzi l’uomo più in alto possibile nella scala della potenza, che sappia costruire uomini pratici e animati da progetti e non sviliti dalle macchine e dalla tecnica (“Pragmatismo”, in Filosofia e letteratura, Mondadori, 1961). Ma veniamo al Tribunale elettronico, installato secondo le pagine dell’autore a Pittsburg. Si tratta del “primo attrezzo giuridico sicuro ed infallibile dei loro piccoli cervelli umani. L’apparecchio ha una facciata di sette metri, è montato su una parete di fondo della maggiore aula del tribunale. Giudici, avvocati e cancellieri non siedono ai loro posti, ma nelle prime file del pubblico, come semplici spettatori. La macchina non ha bisogno di loro: è più precisa, infallibile dei loro piccoli cervelli umani. L’enorme cervello ha come aiutante soltanto un giovane meccanico che conosce i segreti delle innumerevoli cellule fotoelettriche e dei 500 pulsanti di interrogazioni e di comando. Unico ricordo del passato è una bilancia di bronzo che sormonta il metallico cervello giuridico”.
L’autore si sofferma su tre processi.
Il primo riguarda un imputato accusato di aver ucciso una giovane che gli resisteva. Sentiti i fatti, “il tecnico ha premuto un bottone per chiedere alla macchina quali articoli del codice dovevano essere applicati in questo caso e subito sono apparsi sopra un quadrante i numeri richiesti”. Quindi il verdetto: “Il cervello, ha accordato le attenuanti generiche e dopo qualche istante, in altro quadrante, è apparsa la sentenza: 23 anni di lavori forzati. Un distributore automatico ha vomitato un cartoncino dove era ripetuta la sentenza e il cartoncino è stato raccolto dall’ispettore di polizia.” Il secondo processo riguarda una donna che avrebbe falsificato la firma del suo principale per impossessarsi di qualche migliaio di dollari, “alcuni occhi verdi e gialli si sono accesi sulla fronte del cervello giusperito e dopo un minuto e mezzo è apparsa la sentenza. 2 anni e 6 mesi di prigione”. Il terzo processo è il più importante. Riguarda una spia che ha venduto alle potenze straniere alcuni documenti segreti relativi alla sicurezza del paese. A questo punto interviene una novità: la richiesta dell’imputato di essere assistito da un difensore. Ma si tratta sempre di una macchina “che ha enumerato attraverso un disco parlante le ragioni che potevano essere adottate a difesa”. Dopo una breve pausa, un altro disco ha risposto, punto per punto, ai tentativi di discolpa. La risposta della macchina è risultata sfavorevole per l’imputato: Il quadrante più in alto si illumina ed appare “il lugubre disegno di un teschio e sotto, le orribili parole: sedia elettrica. Il condannato esclama una bestemmia, e “quella bestemmia è stata l’unica parola umana del processo” (p.25-29).
In queste pagine degli anni ‘50 si anticipa un futuro rivoluzionario nel mondo del diritto, su cui altri scritti distopici ritorneranno (Charpentier, Justice Maschines, Liberi libri, 2015). Papini vede questa novità con paura e preoccupazione, come nei confronti di ogni macchina che oscura l’elemento umano. Essendo scettico, se non addirittura oppositore, delle macchine e della tecnica che scorge debordante, egli non può che rifuggire da un ‘giudice robot’, usando per il giudice il fortunato termine coniato nel 1920 (Karel Čapek , R.U.R., Marsilio, 2015). La sua paura è per un modello che si augura non si attui mai, che la superbia dell’uomo, che s’oppone costantemente alla perfezione naturale, sia sconfitta. Anche quando cerca di ricreare la macchina perfetta, cioè l’uomo: “Quanto alla creazione degli esseri vivi siamo sempre all’automa meccanico di Maelzel, più o meno perfezionato. L’industria degli androidi è ancora nell’infanzia […] siamo infinitamente lontani dall’ideale: codesti apparecchi richiedono sempre l’intervento dell’uomo”.
Ma la distopia, come si notava, annovera tra le caratteristiche costruttive la distanza: in questo caso la distanza tra lo scritto e la situazione descritta è rimasta inalterata? Oppure si avvicina l’ingresso della macchina nel funzionamento della giustizia e del decidere? Non a caso si parla di ‘decisione robotica’ tra i giuristi del 2018 (Decisione robotica a cura di A. Carleo, Il Mulino, 2019), non a caso si descrivono le applicazioni nella prevenzione della criminalità in altri paesi (H. Fry, Hello world, Bollati Boringhieri, 2019).
E allora sarà opportuno riflettere a breve sul nuovo volto della giustizia di fronte agli algoritmi. Sicuramente volto nuovo, ma altrettanto sicuramente prossimo.
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